ENDERMAN
Ci siamo conosciuti in un giorno qualunque
entrambi vestiti di cicatrici e lacrime
versate per ferite troppo piene di sangue
da curare con mani gentili e umide.
Non doveva accadere, ma sempre per gioco
avevamo iniziato a parlare non poco,
e le ore volavano e il tempo fuggiva
come il mare curioso sbattendosi a riva.
La tua luce, ricordo, brillava ogni ora
mentre ballavi con me di fronte l’aurora,
fu lì che io capii rispetto a ogni sfida
che entrambi saremmo tornati alla vita.
E ogni altro bacio, seguendo il discorso
era stato un segreto ed un mutuo soccorso,
doveva essere soltanto un gioco,
una cosa che doveva durare poco,
e invece ci siamo più volte cercati,
poi persi, trovati, ingannati
ma mai veramente spiegati,
anni passati, pensieri sbagliati,
la verità è che siamo cambiati.
Anzi, a cambiare sono stato io
squarciando il velo nero dell’addio,
sono troppi gli abissi del mio linguaggio di cui taccio,
i chilometri di distanze che puntualmente schiaccio
[tra la terra e il cielo]
per far finta di non sentire la differenza tra la vita reale
[e l’amore vero].
Doveva arrivare, è arrivata la cosa più temuta,
la fine,
come una carezza sulla guancia muta,
che tristezza enorme l’averti dispiaciuta,
l’averti gettata giù da un dirupo
mentre guardavi il panorama,
accompagnato dal mio pianto cupo
alla vista del niente più di chi ama.
Poche le gioie e molte son vane,
dentro di me sai cosa rimane
quando ripenso ai dì del remoto?
Solo un po’ di libertà in un mare di vuoto.